martedì 18 maggio 2010

il SALTO


"In ogni sistema di livello superiore coesistono

infiniti sistemi di riferimento di livello inferiore"

Se la caratteristica di uno spazio a quattro dimensioni è la compresenza di interi mondi a tre dimensioni, allora la navigabilità di base del mondo a quattro è quella che permette di saltare da un mondo a tre dimensioni a un altro a tre, attraverso un SALTO! Per percepire un'altra dimensione quando si è in qualche modo costretti in una inferiore è necessario un salto fuori dalla propria. La figura del salto è fondamentale per percepire un'altra dimensione e per comprendere e per vedere allo stesso tempo effettivamente la propria.

L'immagine rappresenta una pallina da golf costretta unicamente nella sua condizione planare del campo da golf. Per comprendere cosa c'è oltre la realtà della superficie, la pallina deve compiere un salto fuori dalla propria dimensione.

martedì 4 maggio 2010

GOLF GREEN LINE

Il gioco del golf consisite nel tirare la palla da una piazzola chiamata teeing ground ad un'altra chiamata putting green dove si trova la hole (buca), nel minor numero di colpi possibile. Dal punto di partenza alla buca corre una striscia di prato rasato (fairway = "la via buona") fiancheggiata ai lati da fasce di erba più alta, anche non tagliata, (rough = "non buono"). Per rendere più interessante e difficile il gioco, ogni buca presenta diverse difficoltà rappresentate da: water hazard (ostacoli d'acqua) e sand bunker (grandi buche riempite di sabbia).
Studiando la urban green line ho notato come l'intero sistema urbano possa essere interpretato come un grande capo da golf. Infatti, paragonando ogni fermata del tram a una teeing area e ogni urban voids ad una buca, l'obiettivo dovrebbe essere quello di poter giungere da un punto all'altro nel tempo più breve possibile. Ogni macroarea può essere vista come una fairway, delimitata da zone costruite che sono il rough. Gli ostacoli sono quelle aree verdi o già perfettamente funzionanti che non possono essere riprogettate.

martedì 20 aprile 2010

NATI CON IL COMPUER - giovani architetti americani

ALLA RICERCA DI NUOVI TERRITORI

di Donatella Finelli



Christian Pongratz & Maria Rita Perbellini (a cura di),

NATI CON IL COMPUTER - Giovani architetti americani

Universale di Architettura, collana diretta da Bruno Zevi, n. 71 (pp.96)


Nati con il computer è un tentativo di indagare gli effetti che la “Rivoluzione Informatica” sta avendo sul nostro modo di vivere, riconsiderando in particolar modo il posto che oggi occupa l’architettura nell’ambito dell’innovazione tecnologica, dei media e delle telecomunicazioni.

Christian Pongratz & Maria Rita Perbellini studiano gli architetti della generazione che si è affacciata sulla scena americana negli ultimi cinque anni del XX secolo, restringendo la selezione a un ristretto gruppo di architetti, americani per origine o per formazione culturale, fortemente coinvolti nell’elaborazione computerizzata dell’architettura.

Si tratta, infatti, di progettisti che si sono affacciati al mondo della ricerca architettonica quando lo strumento digitale era ormai entrato a far parte del paesaggio della vita quotidiana, influenzando il loro rapporto con il computer. Rispetto alla generazione precedente, che utilizzava le nuove tecnologie solo come un supporto alla progettazione, i nuovi architetti utilizzano il computer come propulsore evolutivo e forza generativa da applicare alla complessità degli ambienti costruiti e virtuali. Essi instaurano un nuovo rapporto con il contesto urbano, non più concepito come luogo di resistenze, di collisione o giustapposizione, bensì come un’esperienza sociale comune; la città non è più vista solo come ambiente costruito, ma anche come evento che include i media, non rispettando la tradizionale barriera o ogni altra limitazione spaziale. E' inutile specificare che ci troviamo di fronte ad una fase estremamente sperimentale, in cui gli approcci ed i risultati non sono ancora ben identificabili e variano estremamente.

Accomunati dagli stessi riferimenti culturali i dieci gruppi giungono a risultati diversi, che gli autori, raggruppano in due principali filoni: l’architettura della De-formazione e l’architettura della In-formazione. La prima vede come protagonisti architetti quali Karl Chu , Greg Lynn , Reiser + Umemoto e Nonchi Wang; questa tendenza consiste in un approccio puramente formale, in cui lo strumento digitale viene utilizzato per manipolare e deformare le superfici, generando sistemi topologici fluidi e malleabili, svincolati dal limite della geometria euclidea. La seconda, invece, è espressa da studi di architettura come Denari Architecture, Diller + Scofidio, Winka Dubbeldam, Marcos Novak, Asymptote Architecture e Thomas Leeser; questo filone ridefinisce lo spazio attraverso il confronto tra architettura e media, creando ambienti fisici adattabili e tattili e proponendo un’integrazione continua di informazione, tecnologia e utenti, che genera delle ipersuperfici, involucri sensibili senza fine né limiti.

Essere nati quando un oggetto o una tecnica è già parte del paesaggio della nostra vita caratterizza la nostra visione del mondo e delle cose? Questa è la domanda a cui questo libro ci invita a rispondere. In realtà giungendo alla fine di questo percorso di 96 pagine non si ottengono risposte né soluzioni; Pongratz e Perbellini non vogliono chiarire né tantomeno esprimere un giudizio su questa varietà di idee e di esperimenti, ma vogliono mettere in risalto una solo cosa: c’è una generazione di giovani architetti che sta cercando in nuovi territori.

SOSTANZA DI COSE SEPARATE

"La modernità è quella che fa della crisi un valore e suscita un'estetica di rottura [...] un'estetica di rottura e di cambiamento implica in questo contesto che il livello estetico rappresenti qualcosa di molto diverso sia dalle nozioni di bello sia da quella di stile."


Rileggendo questo punto del testo "Introduzione alla rivoluzione informatica in architettura" mi è tornato alla mente un libro che ho letto non molto tempo fà: "Architettura e felicità".


L'autore del testo, Alain de Botton, ritenendo che la qualità dell'ambiente in cui viviamo sia fondamentale per il nostro benessere, si interroga sul rapporto tra architettura e felicità. A differenza dei secoli passati, siamo consapevoli dell'impossibilità di individuare una misura del bello assoluta e riproponibile all'infinito, senza tener conto delle tradizioni locali e della sensibilità dei committenti. D'altro canto è anche vero che determinati accostamenti di forme, materiali e stili possono essere fonte di piacere e serenità. Alain de Botton utilizza gli strumenti della filosofia per analizzare la connessione tra l’architettura e la ricerca della felicità. Un progetto decisamente ambizioso e che non può non incuriosire, dato che, seppure da profani, con l’architettura ci dobbiamo misurare ogni giorno, vuoi per comprare una casa, vuoi per ristrutturarla, vuoi semplicemente per decidere se visitare una città piuttosto che un’altra.
Da quando esiste l’uomo, di civiltà ne sono nate e tramontate parecchie, per non parlare di usi, costumi, mode e stili architettonici. Oggi tutto è costruito ed è naturale che vengano spontanee delle domande. Tipo: cosa ricerchiamo in una casa, perché preferiamo uno stile a un altro, perché ciò che per noi è bello per altri non lo è, chi ha deciso che uno stile dovesse prevalere sugli altri, perché cambiamo opinione su ciò che giudichiamo bello?
Ogni architettura e' figlia del proprio tempo. I gusti cambiano con la cultura e il trascorrere dei secoli. Nell'ottocento le case parlavano di privilegi e vita aristocratica, nel novecento del futuro con la promessa di velocita' e tecnologia...Oggi di cosa parlano? O meglio cosa vogliamo che ci dicano oggi? Ma allora se i gusti cambiano, cos'e' un edificio ben progettato?
Noi moderni avvertiamo che è una domanda imbarazzante, alla quale forse non è possibile dare risposta, poiché la nozione di bellezza sembra ormai destinata ad accendere discussioni sterili e infantili. La creazione della bellezza, che un tempo era considerata il compito primario dell'architetto, è scomparsa dai discorsi dei professionisti, trasformandosi in un confuso imperativo privato.
L'autore afferma che gli edifici non sono solamente oggetti visivi senza legami con concetti che possiamo analizzare e quindi valutare, ma essi parlano, e parlano di argomenti che si possono comprendere facilmente. Parlano di democrazia e aristocrazia, di disponibilità e arroganza, di accoglienza e minaccia, di partecipazione al futuro e nostalgia per il passato, trasmettono un'idea degli atteggiamenti psicologici e morali che rappresentano. Essenzialmente l'architettura ci parla del genere di vita più adatto a svolgersi al suo interno. Ci rivela quali stati d'animo cerca di suscitare e mantenere nei suoi abitanti. Ci parla di visioni di felicità.
Dire che un edificio è bello rivela più di una pura e semplice passione estetica; implica un'attrazione verso il particolare stile di vita che l'edificio incoraggia attraverso il tetto, le maniglie, le finestre, le scale, gli arredi. Se percepiamo la bellezza è segno che ci siamo imbattuti in una traduzione pratica di certe nostre idee sulla vita.
L'impulso architettonico sembra legato a un desiderio di comunicare e commemorare, di dichiararsi al mondo tramite un registro diverso dalle parole, con il linguaggio degli oggetti, dei colori e dei mattoni: all'ambizione di far sapere agli altri chi siamo e, con questo, di ricordarlo anche a noi stessi.
Tendiamo a definire bello un oggetto quando scopriamo che contiene in forma concentrata le qualità che mancano a noi personalmente o, più in generale, alla nostra società. Rispettiamo uno stile in grado di distrarci da ciò che temiamo e portarci verso ciò a cui aneliamo: uno stile che ha in sé il giusto dosaggio delle virtù che non possediamo. L'equilibrio che apprezziamo nell'architettura e che consacriamo con il termine «bello» indica uno stato che a livello psicologico possiamo descrivere come di salute mentale o di felicità.
Nell'architettura nulla è mai brutto in sé: semplicemente nel posto sbagliato o della misura sbagliata, mentre la bellezza è figlia di una relazione coerente tra le parti.

"La bellezza e' una promessa di felicità [...] Esistono tanti stili di bellezza quante visioni della felicità" (Stendhal)

sabato 13 marzo 2010

COMUNICAZIONE MARSUPIALE

La storia dell'architettura è da sempre densa di significati simbolici ed espressivi, alcuni strettamente correlati alla particolare epoca storica ed all'inconscio individuale dell'architetto, altri più universali e "decontestualizzati".

Esistono in architettura, ad esempio, delle forme che sono universalmente riconosciute, come ad esempio l'arco. L'arco non è solo una geniale maniera di disporre la materia per dirigere armoniosamente le tensioni strutturali verso il basso ma anche un'icona, un immagine che evoca emozioni profonde. Il potenziale rappresentativo dell'arco è talmente forte che , nonostante le nuove tecniche costruttive abbiano ampiamente superato le antiche limitazioni strutturali, si creano archi anche per un esigenza estetica. L'architetto cerca di interpretare, rappresentare questo sommerso interiore.

Tuttavia tra le due guerre, l’architettura monumentale era usata per esprimere la potenza di uno Stato, spesso dittatoriale, che intendeva magnificare l'autorità, il comando, la gerarchia. Per questo motivo gli architetti moderni iniziarono ad opporsi all’idea di un edificio monumentale e simbolico, a favore di un tipo di architettura strettamente pratica e funzionale.

Fu Jørn Utzon ad avere il coraggio di trasformare la Sidney Opera House in un simbolo.

Vi si riconosco gli abitanti, i visitatori, la città, il continente. E’ un'opera da questo punto di vista monumentale, ma che non ha nulla a che vedere con gli aspetti propagandistici e retori del potere. Stesse forme che coprono spazi dalle funzioni diverse, l’architettura vista non più come una macchina, come una funzione, bensì come un mezzo per comunicare.

Nella battaglia tra architettura tradizionale e d'avanguardia i protagonisti risolutivi sono stati gli architetti del movimento moderno, che pur vivendo in un determinato contesto culturale sono riusciti a promuoverne uno nuovo, frutto di una ricerca alternativa che ha dato un nuovo aspetto all'architettura. L’architettura contemporanea vuole rispondere ad una nuova esigenza di “comunicazione”. Si recupera l'idea simbolica dell'opera, abolita in precedenza dai maestri del movimento moderno, che ora assume un valore diverso rispetto al passato: non più rappresentazione del potere religioso o politico, ma opere che vogliono suscitare emozioni e stabilire un dialogo con le persone.


Due sono i punti che più hanno attirato la mia attenzione:


- L’ARCHITETTURA VISTA COME SIMBOLO

Per quanto riguarda il primo punto, ho cercato di analizzare il vero significato della parola simbolo,scoprendo cose molto interessanti. SIMBOLO è un termine che deriva dal greco symbàllo (metto insieme), e sta a rappresentare due metà di un oggetto che, spezzato, può essere ricomposto avvicinandole: in tal modo ogni metà diviene un segno di riconoscimento. Da questa primitiva funzione pratica il termine è arrivato poi a confondersi totalmente con il significato della parola SEGNO. Mentre nel segno il contenuto è del tutto diverso dalla sua rappresentazione, nel simbolo l'oggetto simbolizzato è simile alla sua espressione simbolica così come accade allo stesso modo con l'analogia.

« Il simbolo è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo » Hegel

Io penso che sia possibile individuare due grandi categorie: l’architettura che nasce come simbolo, che richiama alla mente immagini e idee che costituiscono il messaggio implicito e interpretabile dall'osservatore, che è quello che il progettista vuole trasmettere (museo ebraico di Daniel Libeskind, un emblema di speranza, un luogo che racconta la memoria di un popolo senza essere commemorativo); e l’architettura che diventa simbolo di qualcosa (ad esempio le Twin Towers che sono state il simbolo non solo di una città, ma della potenza economica di un’intera nazione, e dopo la loro distruzione messaggio di pace, solidarietà e memoria).



- IL CONCETTO DI COMUNICAZIONE SOGGETTIVA

E' già da tempo che seguo con interesse alcune idee pubblicitarie che vengono realizzate su internet attraverso Zooppa.

Zooppa è un nuovo modello di pubblicità fondata su Internet e sulla sua capacità di mettere in relazione persone da ogni parte del mondo. Nasce dall'idea di offrire uno spazio per la pubblicità realizzata attraverso contenuti creati dagli utenti. È legata ad un modello di business in cui persone e aziende entrano in contatto in un contesto virale basato sulla creatività e sul riconoscimento di una somma di denaro variabile per i contenuti autoprodotti. Questo significa incentivare il talento creativo di tutti coloro che solitamente non hanno voce in capitolo nel mondo tradizionale della pubblicità. Zooppa lavora con aziende a livello nazionale e internazionale, interessate a sponsorizzare i loro marchi attraverso le gare che periodicamente vengono lanciate sul sito. Sulla base delle indicazioni fornite dalle aziende committenti, gli utenti sono invitati a creare pubblicità per marchi o prodotti delle aziende in questione. Gli utenti registrati possono partecipare con diversi tipi di contributi: scrivere un'idea o una breve sceneggiatura per una potenziale pubblicità, realizzare delle pagine grafiche o dei banner con il logo dell'azienda, registrare degli spot radiofonici, produrre un'animazione o girare un video vero e proprio video.





martedì 14 luglio 2009